Affidare

In libreria ho acquistato un libro per un’amica, per il suo compleanno. Chissà quando riusciremo a scambiarci questi piccoli doni: a volte capita a distanza di mesi, ma poi quando finalmente ceniamo insieme, troviamo un tempo per noi. È sempre bellissimo!

Una volta a casa, con il libro tra le mani, sono curiosa come lo è una libraia; mi piace sempre vedere come è impostata la copertina, il retro di copertina, il titolo, la suddivisione dei capitoli, se non conosco l’autrice vado a cercarmi notizie e quant’altro. Poi, fatta la conoscenza con l’oggetto, inizio con l’incipit.

Giorno dopo giorno, lo leggo tutto e leggendolo mi sono ritrovata in Guatemala, anche se il romanzo è ambientato in Giappone. Racconta la storia di un luogo che esiste realmente, un meraviglioso giardino dove c’è una cabina telefonica con un telefono non collegato che porta le voci nel vento, un posto dove chi è ancora su questa terra va per raggiungere i cari defunti. La storia di tante umanità che si recano lì da tutto il Giappone e da altre parti del mondo per alzare la cornetta e parlare con chi non c’è più(1).

Così i protagonisti di questo libro, che affidano alla cornetta telefonica e al vento le loro voci, mi hanno riportato ad una situazione che per vicinanza di umanità, profumi e colori non dimenticherò mai.

Siamo in Guatemala, alla fine degli anni ‘80, a Chichicastenango, famoso per il coloratissimo mercato e per lo splendido lago: una perla turchese circondata da coni craterici.

Dopo una mattina di immersione al mercato con lo zaino arricchito di tanto e colorato lavoro manuale delle donne, negli occhi una moltitudine di volti e di sguardi, incantata e sfinita da tante emozioni, avevo alzato gli occhi verso la scalinata della chiesa di Santo Tomás. Il mercato continuava anche lì. In particolare, c’erano degli enormi mazzi di fiori sui gradini, una donna seduta vicino al proprio covone come a custodire un bene prezioso che probabilmente aveva coltivato e che ora cercava di vendere. I fiori e i corpi delle donne si mescolavano creando un insieme di una bellezza indimenticabile, un’immagine fortissima posizionata proprio all’entrata di un tempio. Ero un po’ frastornata e avevo pensato di andare a isolarmi e riposarmi in chiesa.

Ero entrata e avevo visto persone sedute per terra, ma distanziate come se ognuna avesse bisogno del proprio spazio, sedute con le gambe incrociate come fanno loro con i loro vestiti coloratissimi. Avevo notato che all’entrata vendevano le candele, ora vedevo come se le sistemavano davanti, le accendevano, bruciavano i rametti profumati e petali di fiori e iniziavano a parlare a voce bassa, si creavano uno spazio di intimità. Io ero imbarazzata, mi sembrava di invadere, non sapevo come fare. Allora con discrezione, sono rimasta verso il fondo, dove lo spazio era libero, provando a sentire quel luogo e quello che mi stava dicendo. Lì dentro si svolgeva un’azione liberatoria, di sfogo, di preghiera, di richiesta di bisogni. Piano piano mi accorgevo che alcune donne si erano sistemate intorno a me, con una distanza che sembrava già disegnata nella terra, ma che era comunque condivisione dato che lo spazio era comune. Io non capivo tutto quello che esprimevano, solo alcune parole, ma ricorderò sempre come cambiava il tono della voce che via via si alzava e si trasformava finché si rompeva in pianto e poi tornava normale e rasserenato nel ringraziamento per una nascita o per un buon raccolto. Io ero risucchiata da questo flusso inarrestabile, come un canto che mi trascinava dentro, vicina a loro. Ricordo di essere stata molto tempo seduta ascoltando, immersa anche nei tanti pensieri che nascevano  e si mescolavano in quel luogo  e ho pensato che questo sedersi in uno spazio e poter tirar fuori quello che si ha dentro, raccontandolo a qualcuno, affidandolo alla terra, al sole, a un forza che  pensiamo più grande, potesse essere, oltre che un atto liberatorio, un gesto di grande umanità, il diritto di piangere, il diritto di prendersi del tempo, il diritto di ascoltarsi.

Quanto ti ho pensato e avuta vicina in quel viaggio cara amica. Lo avevamo preparato insieme, poi per motivi di lavoro avevi dovuto rinunciare, cara Franca, ma siamo riuscite a scriverci anche in quei 40 giorni di distanza. Al ritorno dal Guatemala, facendo base a Matagalpa in Nicaragua, dove in quel tempo Mariangela lavorava come cooperante, trovai una tua lettera, ti risposi la sera stessa, raccontandoti le donne guatemalteche e il loro canto.

Quel canto, oggi mi porta te, Franca, cara amica che hai cantato tanto per noi e con noi. Si può proprio dire che cantare era una tua passione e le vibrazioni fluivano alte. Il tuo stile era splendidamente rigoroso quando preparavi un concerto e la condivisione finale era forte e piena.

Abitando nella stessa casa, al piano sotto, io potevo sentire anche il tuo canto più intimo, quello che ogni tanto partiva sopra a un cd a tutto volume mentre pulivi casa o stiravi. In quelle situazioni tu lasciavi la porta aperta e la tua voce arrivava alla mia, di porta aperta, ed entrava libera e in movimento: a volte era seria, dura, a volte diventava delicata, oppure si alzava, altre si abbassava e diventava piena. Sapevo che poteva essere un canto di tristezza, un canto di rabbia o di gioia, sapevo che il cantare era per te una comunicazione forte e vera. Quando lo facevi da sola era per il bisogno di dare spazio ai tuoi stati d’animo, al canto tu affidavi i tuoi sentimenti più profondi. E il canto girava, vibrando per tutta la nostra casa.

La tua porta aperta ora si è chiusa, te ne sei andata all’inizio dell’estate. Credo tu abbia continuato a cantare dentro fino alla fine, nonostante la voce faticasse ad uscire. Te ne sei andata privata del movimento del corpo: quanto ci piaceva ballare, scatenarci o unirci a un ballo di gruppo, una danza popolare! Ora voglio pensarti libera finalmente di danzare e cantare nel mondo. Vorrei poter tornare in quella chiesa in Guatemala: la guida la descrive come il tempio della religione Maya, dove le varie etnie che abitano le terre dei Quiché vanno a riferirsi alle forze della natura, sole, luna… Proprio ad un luogo così vorrei affidare la mia fatica e il dolore di non poterti più avere vicina, fisicamente vicina, vorrei essere lì per poter piangere e asciugare le lacrime come ho visto fare alle donne del luogo, per rasserenarmi.

Vorrei anche gridare al mondo la fortuna, la bellezza, la gratitudine di avere vissuto una storia come la nostra, una grande infinita amicizia che insieme abbiamo creato e cresciuto ogni giorno. Quanto bene mi porto dentro.

Troverò per te un luogo magico come un bosco con lo scoiattolo volante, o un’isola dove pascolano le capre, dove è forte l’odore dell’incenso, dove cresce la salvia sulle rocce in riva al mare, un posto che sia alla tua altezza, cara amica, e farò questo importante rito di affidarti all’aria e al cielo alto. Con le parole di una canzone che mi hai regalato: “Danno la via meravigliati i boschi, non usi a contemplar tanta bellezza” (2).

                                                                                    Teresa

(1) Quel che affidiamo al vento, Laura Imai Messina, Piemme ed., 2020.

(2) Meravigliati i boschi, Gianna Nannini, su testo di Pia Pera.


Chichicastenango, Guatemala. Foto di Teresa
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