Contributo di Anna Taras
Riportiamo un estratto dalla formazione tenutasi per Laboratorio Obiettivo 5 sul tema “Linguaggio giuridico, linguaggio di genere”, durante la quale abbiamo cercato di comprendere quanto e se il linguaggio di genere appartenga a quello giuridico.
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, l’affermarsi della donna nel mondo produttivo-lavorativo, ricoprendo ruoli sempre più importanti, rivestendo, altresì, alte cariche istituzionali e statali, oltre alla crescente esigenza delle donne stesse di vedersi riconosciute uno status di piena dignità sociale e professionale, al pari dell’uomo, ha reso necessario parlare, in modo particolare in ambito giuridico e amministrativo, di “sessismo linguistico”.
La nozione di linguistic sexism viene elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio. Emergeva infatti in quegli anni una profonda discriminazione nella rappresentazione della donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua e di ciò si iniziò a discutere anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico.
Con l’incontro di questa sera cerchiamo di capire, attraverso un’analisi sia del linguaggio normativo, sia del linguaggio utilizzato nei documenti istituzionali e amministrativi, qual è lo stato di salute del linguaggio giuridico italiano per quanto attiene il rispetto di genere.
Per un approfondimento sulla linguistica di genere, leggi anche Linguistica di genere
IL SESSISMO LINGUISTICO NEL LINGUAGGIO DEL SISTEMA GIURIDICO ITALIANO
Iniziamo la nostra analisi, in ordine al testo normativo, dalla Costituzione Italiana.
Come messo in luce da numerosi studi, l’Assemblea Costituente italiana fu molto attenta all’aspetto della realizzazione linguistica della Costituzione. Uno degli elementi che maggiormente colpisce, infatti, risiede nella «consapevolezza dei costituenti circa il fatto che con la lingua e sulla lingua si sarebbero giocati i destini della nazione […]» nella convinzione che «il rispetto del principio dell’altro passi per la lingua».
Il linguaggio costituzionale esercita costantemente una pressione sul linguaggio giuridico ordinario, tale da creare progressivi aggiustamenti, piccole variazioni e tal volta veri e propri mutamenti di significato in senso conforme al sentire collettivo. Ciononostante, la circostanza che una parte rilevante dei termini presenti nel testo costituzionale sia declinata al maschile è sicuramente prova della venuta al mondo di tale documento nel contesto di una società fondata sul modello del genere maschile.

Non sono meno androcentrici il codice penale ed il codice civile, codificati ancora prima della Costituzione.
Infatti, per quanto attiene all’ambito del diritto penale, la giurista Paola Di Nicola, nel suo libro “La giudice” scrive: «Il lessico del diritto penale […] mi ricorda […] le radici del nostro essere […] Nel codice penale la donna è sempre e solo la sua sessualità, il suo corpo, il suo ruolo sociale e familiare: essere che crea desiderio, madre che genera figli, moglie che accudisce un marito”.
Stefania Cavagnoli, giurista, in un volume che affronta la tematica della lingua di genere nella sua relazione con il linguaggio giuridico, fa riferimento a due articoli del Codice Penale: l’art. 575 e l’art. 578. Tali articoli vengono esaminati nel tentativo di dimostrare come l’inclusività di una parola – il cosiddetto “neutro” – non sia poi così logica e immediatamente comprensibile, ma necessiti di una contestualizzazione storico-sociale.

L’articolo, se esaminato esclusivamente da un punto di vista letterale, presuppone che il responsabile di un omicidio debba essere punito quando abbia ucciso un uomo ma non necessariamente quando abbia tolto la vita ad una donna. Ovviamente, il lettore, ma soprattutto l’interprete italiano ha contezza della circostanza che uomo e donna possiedano uguale dignità e uguale responsabilità in relazione alle loro azioni, per cui automaticamente concluderà che in tal caso, l’impiego del termine uomo sia equivalente a quello di persona.

Anche in tal caso, per quanto chi legga il titolo dell’articolo possa tranquillamente, con il proprio bagaglio conoscitivo, presupporre che l’infanticidio sia causabile sia dal padre che dalla madre, leggendo il testo della norma ci si trova di fronte al solo uso del femminile madre che, paradossalmente, potrebbe indurre persino a reinterpretare in modo non inclusivo l’articolo stesso, in considerazione del fatto, peraltro, che il femminile non è considerato linguisticamente inclusivo.
Ancora oggi, dunque, il linguaggio giuridico italiano presenta specifiche strutture al maschile che restituiscono l’immagine di una società che non riesce più a rappresentare la realtà sociale contemporanea.
Ultimo spunto di riflessione è dato dal riferimento al diritto di famiglia che, rispetto al codice del 1942, nella versione del 1975 modifica la visione etica e sociale sia della famiglia che della donna.
Ricordiamo, infatti, che proprio in quegli anni ci sono state intense battaglie sociali e culturali tese a modificare la visione anacronistica della famiglia, con l’introduzione normativa dell’istituto del divorzio. Rivoluzione culturale che senz’altro ha portato a una nuova visione del ruolo della donna nel contesto familiare.
Infatti, per esempio, nell’art. 143 cc, relativo al matrimonio, viene sancita la previsione di un’uguaglianza tra i generi, nella misura in cui si stabiliscono i reciproci obblighi di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di coabitazione, di collaborazione nell’interesse della famiglia. In particolare, linguisticamente, si assiste all’importante modifica della patria potestà in potestà genitoriale: non sussiste più alcuna differenza fra potestà materna e potestà paterna, oggi definita responsabilità genitoriale.
LA PARITÀ DI GENERE NEL LINGUAGGIO DI NORME, REGOLAMENTI, DOCUMENTI
Quali atti normativi, atti regolamentari e documenti sono stati elaborati al fine di raggiungere l’obiettivo dell’utilizzo di un linguaggio non discriminatorio di genere nel nostro Stato?
Un primo passo verso un uso della lingua che garantisse la parità dei sessi viene compiuto dal Parlamento italiano con la legge del 9.12.1977 n. 903 sulla Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, che riprendeva la direttiva del Consiglio 76/207/CEE del 9.2.1976, nella quale all’art.1 si annuncia: È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o ramo di attività a tutti i livelli della gerarchia professionale anche (…) in modo indiretto (…) a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Tuttavia, il risultato di questa direttiva è stato quello di diffondere, in riferimento a posizione lavorative, l’uso del solo genere maschile al quale si comincerà a riferirsi, da allora, come “maschile neutro” proprio in quanto usato per uomini e donne.
L’uso del maschile come neutro è riconosciuto come discriminatorio da diversi studi, tra i quali quello, fondamentale, della linguista Alma Sabatini, le cui direttive negli anni ’90 saranno recepite da due manuali: il “Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche”, pubblicato nel 1993 da parte del Dipartimento per la Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il “Manuale di Stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche”, nel 1997.
Di dieci anni più tardi, ovvero del 2007, è l’Atto di Sindacato Ispettivo n°1/00107 del Senato della Repubblica , presentato dalla senatrice Alfonzi e altri e in cui si legge che “Il senato (…) impegna il Governo ad introdurre negli atti e nei protocolli adottati dalle pubbliche amministrazioni una modificazione degli usi linguistici tale da rendere visibile la presenza di donne nelle istituzioni, riconoscendone la piena dignità di status ed evitando che il loro ruolo venga oscurato da un uso non consapevole della lingua.”
Un importante passo avanti è stato fatto con la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011, e recepita nella normativa italiana con la Legge 77/2013. Detta Convenzione, detta tra gli obblighi generali l’impegno degli Stati ad adottare “le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”. Individua, peraltro, come strumento fondamentale l’educazione, disponendo che vengano intraprese, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi e delle allieve.
Alla norma di recepimento della Convenzione, purtroppo, non sono seguite né norme di sviluppo dei principi dettati, in ordine al corretto utilizzo di un linguaggio di genere, e nemmeno regolamenti, ma solo linee guida dettate da diverse amministrazioni più sensibili al tema, come ad esempio il Comune di Firenze.
A livello Ministeriale solo il MIUR ha pubblicato le “Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, recepite poi da diverse Università che hanno proceduto allo studio e alla revisione dei documenti amministrativi utilizzati, modificando le parti non rispettose del linguaggio di genere.
IL LINGUAGGIO DI GENERE NEL PARLAMENTO EUROPEO
L’impegno da parte del Parlamento europeo a utilizzare nelle pubblicazioni e comunicazioni un linguaggio neutro dal punto di vista del genere risale all’anno 2008, quando il 19 maggio l’Ufficio di presidenza accoglieva per la prima volta una serie di linee guida sulla neutralità di genere, specifiche per ogni lingua. All’interno di queste linee guida viene affrontata la questione della neutralità linguistica, definendola nelle sue caratteristiche fondamentali, descrivendone le problematiche ad essa collegate e fornendo delle indicazioni adatte alle diverse lingue di lavoro comunitarie.

Per quanto le lingue di lavoro nella Comunità siano molto diversificate, è possibile riconoscere una serie di problematiche comuni legate a un utilizzo neutrale del linguaggio, e che all’interno delle linee guida vengono suddivise in tre gruppi: quelle connesse all’uso neutro del genere maschile, quelle legate alla designazione di funzioni e professioni, e quelle riferite al modo in cui si esprimono nomi, stato civile e titoli di cortesia. Inoltre, dato il contesto multilingue nel quale opera il Parlamento europeo, si pone la problematica anche dal punto di vista traduttivo: non in tutti gli idiomi utilizzati nell’Unione infatti il principio di neutralità può essere applicato allo stesso modo. Nello specifico, per la lingua italiana vengono riconosciute diverse fattispecie alle quali far attenzione per evitare la redazione di testi sessisti, e la prima di esse è quella legata al termine «uomo/uomini»: accettata nelle accezioni di “essere vivente/persona nel suo complesso di diritti e doveri/ essere vivente”, è invece rifiutata laddove venga utilizzato come sostantivo generico descrittivo di una categoria ben determinata. Vanno dunque evitate espressioni quali «uomini d’affari/politici/di scienza/di stato/di lettere/primitivi», alle quali si preferiscono termini quali “imprenditori/politici/giuristi/scienziati/statisti/letterati/popoli primitivi”. Altro esempio di un ulteriore passo verso la neutralità di genere è rappresentato dalla sostituzione di termini collettivi al maschile plurale con termini collettivi che includano ambo i sessi: “la magistratura/il personale docente/ il corpo insegnante/ il personale/la direzione/la presidenza” piuttosto che «i magistrati/i docenti/gli insegnanti/i dipendenti/il direttore/il presidente».
Tuttavia, per quanto riguarda titoli, funzioni e professioni le raccomandazioni optano ancora per l’utilizzo del maschile neutro, accettando, per esempio, forme quali “il presidente Maria Rossi” tranne nel caso in cui la figura femminile interessata non abbia esplicitato una propria preferenza per un trattamento linguistico diverso.
Anche a livello europeo, dunque, si nota come le scelte linguistiche che riguardano l’italiano rimangano ancorate a un passato remoto: il maschile non marcato con tutte le dissimmetrie a esso connesse persiste.
CONCLUSIONI
Siamo giunte ora alla conclusione di questa serata, nella quale ho posto il quesito se il linguaggio giuridico, nell’accezione di linguaggio utilizzato nei testi normativi, istituzionali e della pubblica amministrazione in genere, è un linguaggio di genere.
La risposta non può che essere negativa poiché, nonostante i diversi studi e contributi forniti dalle linguiste Sabatini e Robustelli a partire dagli anni ottanta a oggi, sono state pubblicate, a livello nazionale, solo raccomandazioni, prese di impegno a introdurre negli atti e nei protocolli una modificazione degli usi linguistici rispettosi della differenza di genere, alle quali non ha mai avuto seguito una qualsivoglia presa di posizione ufficiale da parte dello Stato su un uso corretto del genere nel linguaggio, con rarissime eccezioni, come abbiamo visto, da parte di singole amministrazioni o comparti Ministeriali.
Vediamo, infatti, che ancora oggi in molte amministrazioni pubbliche la modulistica non riporta un linguaggio corretto dal punto di vista del rispetto di genere.
Anche la Direttiva n. 2/2019 emessa dal Ministero per la pubblica amministrazione, intitolata “Misure per promuovere le pari opportunità e rafforzare il ruolo dei Comitati Unici di garanzia nelle amministrazioni pubbliche” è stata un’occasione mancata. Nonostante fra le azioni che il Piano richiamato dalla Direttiva si prefigga anche di realizzare una significativa azione di prevenzione che parte prioritariamente dai settori della educazione, della formazione e del lavoro, nulla viene indicato in ordine al linguaggio.
Purtroppo, finché non vi sarà la consapevolezza che il rispetto dei generi non può prescindere dal linguaggio utilizzato, senza una netta presa di posizione da parte dello Stato, in tutte le sue istituzioni, legislative, governative e giuridiche, sarà difficile scalfire quell’immagine di una società costruita al maschile, costantemente proposta dai mass media, attraverso i quali “la donna appare come un essere inadeguato o addirittura inferiore rispetto all’uomo, se ne sottolineano i tratti fisici o della vita privata più del peso sociale e politico, la si definisce tranquillamente al maschile se riveste un ruolo di rilievo in campo istituzionale o professionale”. Il vero problema in questi casi, come sottolinea Cecilia Robustelli è che, molto spesso, sono le donne stesse a far propri modelli linguistici e comportamentali maschili, convinte che ciò permetta loro di raggiungere una posizione di maggior prestigio sociale, professionale, economico e politico rispetto a quello femminile. Questo atteggiamento è frutto, secondo la stessa studiosa, di una concezione ormai datata della parità di diritti tra uomini e donne, una parità che se prima equivaleva all’omologazione della donna al modello maschile, oggi deve realizzarsi tramite il riconoscimento della differenza di genere.
Anna Taras è nata a Bassano del Grappa il 17.5.67, dove risiede.
Laureata in giurisprudenza, esercita attività di avvocato, settore civile.