Contributo di Emma Bernardi
Riportiamo un estratto dalla formazione tenutasi per Laboratorio Obiettivo 5 sul tema “Linguistica di genere”, durante la quale abbiamo cercato di comprendere che cosa si intende per linguistica di genere, qual è la relazione tra genere e linguaggio e come il nostro comportamento verbale contribuisca alla costruzione di identità e relazioni sociali.
SESSO, GENERE E GENDER
Se da una parte il termine sesso viene utilizzato per esprimere il dato biologico, relativo all’essere femmina o maschio della persona o dell’animale, i termini genere e gender si sono imposti nella seconda metà del Novecento per indicare il sesso come costruzione sociale e storica, costruzione che si riflette nel sistema linguistico di ogni paese.[1]
È diffusa la convinzione che il genere sia naturale, biologico. Spesso si crede che le donne si comportino in un determinato modo, ragionino, amino diversamente dagli uomini, per ragioni che sono insite nella loro natura. Questa convinzione è tanto radicata da aver dato origine al mito dell’impossibilità di comprensione tra uomini e donne, ed è proprio tale convinzione a far apparire scandaloso il comportamento di chi non rispetta questo modello.
Al contrario, come si può intuire dalla definizione data all’inizio, il genere non è naturale, ma costruito. È costruito attraverso azioni e dispositivi che raggiungono la persona dall’esterno, che vengono dalle autorità, dal contesto sociale, economico, religioso, dall’istruzione, ecc.; ma è costruito anche dall’interno, nel senso che attraverso i propri comportamenti ogni persona costruisce e ridefinisce la propria posizione sociale e la propria identità. Quando si parla di doing gender, ci si riferisce quindi alla creazione del genere tramite le interazioni quotidiane.
GENERE E LINGUAGGIO
C’è un aspetto ambivalente del linguaggio che non sempre è messo in luce. Da una parte esso rivela sulle persone più di quanto esse stesse credano: provenienza, estrazione sociale, professione, età, ecc. In questo senso il linguaggio ci definisce. D’altra parte, ognuno/a può controllare il linguaggio, usarlo per uno scopo, e quindi è la persona stessa che, attraverso il linguaggio, definisce la propria identità e la propria posizione in un contesto sociale.
In breve, ciò significa che se mi esprimo come una persona di classe elevata, vengo riconosciuta come persona di classe elevata, e se mi esprimo come una donna, vengono riconosciuta come donna. Questa constatazione, puramente descrittiva (non c’è niente di falso nell’affermare che persone di estrazioni sociali diverse parlano diversamente), diventa problematica quando diventa prescrittiva (sono una donna quindi devo esprimermi in un determinato modo). La donna che, perché percepisce la propria identità come femminile, crede di dover utilizzare un dato vocabolario (più forbito, elegante), un dato tono (più pacato, educato), non sta solo definendo se stessa come appartenente a un gruppo “donne” precostituito e immutabile, ma sta contribuendo, con il proprio comportamento verbale, a costruire la definizione di “donna”, a costruire il genere donna (lo stesso naturalmente vale per la costruzione del genere maschile).
Ecco come mai si dice che il genere è socialmente costruito, anche attraverso il linguaggio. Quando si utilizza una parola al posto di un’altra non si sta compiendo un’azione passiva, di riconoscimento di un dato di fatto. Si sta invece compiendo un’azione attiva, con la quale si attribuiscono determinate caratteristiche e si definisce l’oggetto del discorso (il referente).
Notiamo che lo stesso vale quando, attraverso atti verbali, non si definisce se stesse/i, ma altre persone, gruppi, professioni, ecc. Per esempio, definire professionalmente una donna come avvocato, ingegnere o sindaco, invece che come avvocata, ingegnera o sindaca, costruisce il genere non tanto della donna (che rimane percepita come donna) ma della professione, che chi preferisce la declinazione al maschile percepisce come professione con caratteristiche maschili, per svolgere la quale sono necessarie caratteristiche maschili.
Non solo percepisce la professione in questo modo, ma contribuisce attraverso il linguaggio a definirla socialmente come professione maggiormente adatta a un uomo. Certo, questa persona non sta sostenendo che una donna non possa ricoprire l’incarico di sindaco, o non possa fare l’ingegnera. Anche le donne possono fare lavori da uomini, sembra essere l’assunto di fondo. Chi sceglie di declinare le professioni al femminile, al contrario, contribuisce alla costruzione di un genere femminile che comprende anche tali professioni, modificando la percezione sociale verso tale professione in una professione che è tanto da uomini quanto da donne.
“LA SIGNORA HACK”
Il modo in cui scegliamo di parlare ogni giorno costruisce o decostruisce la società a cui apparteniamo, modifica la percezione dei rapporti all’interno della società e quindi modifica i rapporti stessi. Anche il modo in cui ci si rivolge a una persona contribuisce a definire il rapporto che si ha con essa. È molto comune, per esempio, che, mentre nel rivolgersi a un uomo si utilizza il titolo di studio o professionale (dottore, avvocato, geometra), nel rivolgersi a una donna, per quanti titoli di studio essa possa avere, si continua a utilizzare il più semplice “signora”.
Durante l’incontro pubblico tra monsignor Zenti e l’astrofisica Margherita Hack, nel corso del quale nel gennaio 2010 si è dibattuto su scienza e fede, si può vedere come il monsignore si rivolga all’astrofisica chiamandola “signora”. Lo stesso fa monsignor Bruno Fasani, direttore dell’ufficio diocesano delle Comunicazioni sociali, quando le pone una domanda. Sarebbe stato lo stesso se al posto dell’astrofisica ci fosse stato un uomo?
(Riportiamo un breve estratto dell’incontro, il video completo è disponibile su YouTube)
Per chi volesse approfondire ulteriormente gli argomenti trattati, ecco alcuni libri e articoli utili:
- Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, A. Sabatini (a cura di), 1987 (disponibile anche su nostro sito nella sezione Documenti)
- Identità e discorsi. Studi offerti a Franca Orletti, L. Mariottini (a cura di), Roma TrE-Press, 2015 (scaricabile gratuitamente qui: http://romatrepress.uniroma3.it/libro/identita-e-discorsi-studi-offerti-a-franca-orletti/ , contiene numerosi interventi tra i quali G. Basile, Quando le donne entrano nel dizionario, identità femminile e usi linguistici, G. Giusti, Ruoli e nomi di ruolo in classe: una prospettiva di genere, P. D’Achille, Per la storia di “Signorina”)
- P. M. Torrioni, Genere e identità: la costruzione sociale del maschile e del femminile nella società complessa, 2014 (articolo scientifico scaricabile gratuitamente qui: https://www.researchgate.net/publication/285768775_Genere_e_identita_la_costruzione_sociale_del_maschile_e_del_femminile_nella_societa_complessa)
- Non specifico sulla linguistica di genere, ma ugualmente utile per chi volesse approfondire come attraverso il linguaggio si costruiscano identità e relazioni, è F. Orletti, La conversazione diseguale. Potere e interazione, 2000.
Emma Bernardi è laureata in Linguistics all’Università degli Studi di Verona. Questo brano è estratto dalla serata di formazione sul tema “Linguistica di genere” che si è svolta mercoledì 22 gennaio 2020 presso Laboratorio Obiettivo 5.
[1] Genere e lingua, in “Enciclopedia dell’Italiano”, Treccani