La fila

Torino è bella da morire, oggi.

Il sole del sabato pomeriggio rimbalza indisturbato tra la chiesa della Consolata e il Duomo.

Scalda la pelliccia di un gatto bianco e nero allungato sull’erba dei Giardini Reali.

Passa in mezzo agli alberi di Corso Moncalieri, vuoto di auto e di persone.

Cerca di infilarsi lungo i portici deserti di piazza Castello.

Entra nel Parco del Valentino per andare a specchiarsi sull’acqua quieta del Po.

Arrossa la pelle di un ragazzo che a occhi chiusi, steso su una sdraio nella terrazza di un palazzo del centro, ascolta musica dagli auricolari del suo cellulare.

Si riverbera sulle vetrine dei negozi chiusi di via Garibaldi.

Lucida i capelli color ginestra di Anna, che è in fila davanti al supermercato, l’unico posto aperto del centro commerciale.

Aprile è un mese bello da morire, a Torino.

Anna calcola che le ci vorranno ancora venti minuti sicuri. Ci sono almeno quindici persone prima di lei, quasi tutte con il carrello pronto per essere riempito. Una lunga serpentina che si snoda dal parcheggio fino alle porte scorrevoli. A cadenza regolare, sono state segnate sull’asfalto delle linee blu per disciplinare le distanze.

Sono le cinque, il calore della giornata si è raggrumato nel piazzale e lei è sudata: ha annodato il giubbino di jeans in vita e ha arrotolato le maniche della maglia fino ai gomiti, però sente alcune gocce di sudore che le scendono dal collo alla schiena. Saranno i guanti, sarà la mascherina, sarà che non è più abituata a starsene all’aperto e la luce la infastidisce perfino, fatto sta che non sa esattamente perché sta soffrendo per quei venti gradi e qualcosa. Di solito, nelle primavere normali, questa temperatura la rende felice, apre la strada agli aperitivi in centro con le amiche, alle giornate che si allungano, alle chiacchiere nel cortile ombreggiato dell’università, dopo le lezioni.

Lascia scorrere lo sguardo sulla fila di persone che ha davanti a sé. Una donna magra e alta parla al telefono a bassa voce; un ragazzo con una ragnatela tatuata sulla nuca si appoggia al carrello con i gomiti.

Da un’auto appena arrivata nel parcheggio scende un uomo. Anna lo vede dirigersi verso la fine della serpentina. Via via che si avvicina, ne nota i capelli bianchi, un po’ radi ma ben pettinati, la camicia a righine azzurre, le belle clark marroni.

La donna magra ha chiuso la sua telefonata.

Anna ha voglia di una sigaretta, ma dovrebbe togliersi i guanti di lattice e abbassare la mascherina. Impossibile farlo, lì in mezzo. Allora prende una delle caramelle che tiene in borsa, ne scarta l’involucro verde. Le sembra che il rumore disturbi le persone, come quando al cinema qualcuno sgranocchia i pop corn nel silenzio della sala.

L’uomo con la camicia azzurra sta ancora percorrendo la distanza che lo separa dall’ultima persona in coda. Avrà settant’anni, forse qualcuno di più. Un bel portamento. Tiene tra le mani la busta vuota della spesa, ben piegata.

Un signore distinto, direbbe sua madre.

Con un gesto rapido, Anna abbassa per un attimo la mascherina e si infila la caramella in bocca. Le pare che il fresco della menta gommosa si irradi per tutto il corpo. Dovrebbe offrirne qualcuna alle persone più vicine? Suo padre le ha insegnato ad essere generosa, a condividere quello che ha. Però non le sembra il caso, questa mica è una situazione normale, ogni contatto va ponderato.

Intanto la fila si sta muovendo. Il signore distinto cammina, è nel mezzo del piazzale.

Forse perde l’equilibrio, forse l’asfalto è un po’ sconnesso.

Barcolla per qualche secondo, annaspa con le braccia, come se cercasse di aggrapparsi a qualcosa.

Cade a faccia in giù, il rumore del tonfo è secco e preciso, fende l’aria.

Anna fa per andare verso di lui, come il ragazzo con il tatuaggio e la signora col telefono e le altre persone. Un movimento istintivo, lo stesso identico gesto che anima la fila, lo stesso fiato trattenuto nello stesso momento.

Poi tutti si fermano. Il contatto, il contagio, il DPCM. I corpi si ritirano come in un unico guscio di tartaruga. Stanno lì dove si trovano, immobili, quieti. Anche Anna.

L’uomo si muove, cerca di rialzarsi ma non ci riesce. A fatica si mette seduto. Si osserva i palmi delle mani, c’è un po’ di sangue. Ha del sangue anche sulla fronte. Anna vede il taschino della camicia strappato, le scarpe graffiate. La busta della spesa è finita un metro più in là. L’uomo sembra smarrito, alza gli occhi, si guarda intorno, non capisce. Il sole gli fa luccicare la fede sull’anulare.

Tutti immobili, quieti.

Anna si sente confusa. Pensa: “Cosa devo fare?”. Suda, ma adesso non è per il caldo.

Arrivano le due guardie giurate del supermercato, un tipo tarchiato sui trent’anni senza mascherina e uno smilzo, alto. Il secondo si accovaccia sui talloni, a un metro dall’uomo.
Tutto a posto? Gli chiede.
Lui fa cenno di sì con la testa. Piega le gambe, appoggia le braccia sulle ginocchia, le mani penzoloni. Respira a fondo due o tre volte.

La guardia si rialza. Bene, gli dice. Poi si rivolge alla fila: Signori, voi continuate a mantenere le distanze. Lui e il tipo tarchiato tornano verso le porte scorrevoli.

L’uomo resta seduto in mezzo al piazzale, da solo.

La fila avanza composta verso l’entrata del supermercato. Un’unica grande tartaruga che rimette fuori le zampe e riprende piano il suo cammino.

Anna ha un peso sullo stomaco, forse è il guscio della tartaruga, e vorrebbe non essere a Torino, vorrebbe non fosse aprile, quell’aprile lì del 2020.

Foto di Adrien Delforge dal sito unsplash.com
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