C’è stato un tempo, intorno al 2020, in cui gli umani hanno dovuto fermare il loro tran tran quotidiano.
Non c’era più la sveglia presto al mattino per correre via, lontano da casa, verso i propri impegni.
Non c’erano palestre aperte, le scuole erano chiuse, i bar non ospitavano più le tante persone che venivano a fermarsi lì.
A ben pensarci, diverse voci dalle loro televisioni consigliavano di restare a casa.
Non era un consiglio in realtà, era un dovere.
Il must do di quel periodo era: Restare a casa.
Qualcosa di strano stava succedendo, tale che uscire di casa, tornare dagli amati, farsi prendere dalla paura, era considerato reato. Anzi, ancor più, era considerato un gesto sfrontato.
Ho sentito di persone chiuse in casa da una vita, le quali dopo tanto tempo vedevano i propri cari e morivano di un male strano.
Ho sentito di persone empatiche, che si rendevano conto della difficoltà di alcune scelte.
Ho sentito maledire popoli, poiché avevano portato nella loro terra un male letale.
Lo chiamavano COVID – 19, dicevano assomigliare alla SARS che tempo prima aveva preoccupato tantissime persone.
Lo chiamavano COVID – 19 ed era un male sconosciuto quanto letale.
Le parole in questo tempo non sono mancate. Anzi, si son sentite più parole in questo tempo che in altri momenti.
C’era però forse una differenza: le persone non solo comunicavano le une con le altre, ma si ascoltavano anche.
C’è stato un tempo in questo tempo senza tempo che le persone si dedicavano speranza.
Mio nonno era in casa, solo, aveva la sua dolce metà (quella che sarebbe diventata mia nonna) a dieci chilometri di distanza. Avevano fatto tanto per stare insieme, per stare vicini. Erano quasi riusciti a vedersi ogni giorno.
Si erano dati una possibilità.
Poi è arrivato “il male” e li ha separati nuovamente.
Tuttavia, questa volta non ci stavano proprio a dividersi di nuovo.
Arrivavano allora le sei di sera e c’era sempre nelle loro vie qualcuno che metteva la musica. Musiche felici, antiche, che donavano speranza.
Allora, in quel momento, alla prima nota, si chiamavano.
“È l’ora” si dicevano e si avvicinavano alla finestra per permettere l’un l’altro di sentire canzoni.
Canzoni diverse, portate da case diverse, riuscivano ad avvicinarli.
Ho sentito la speranza anche nei racconti di mia zia. Lei era infermiera e si metteva ogni giorno un camice pesante che non le lasciava nemmeno un pezzo di carne fuori. Me lo ha mostrato.
Si proteggeva fisicamente da qualcosa che fino a poco prima avevano sottovalutato, o avevano cercato di far sottovalutare agli altri: “È solo un’influenza. Però non prendertela, perché non abbiamo posti in terapia intensiva” – così diceva a mio zio.
Però poi si faceva il segno della croce e sperava di non essere contagiata durante il suo lavoro, o di non vedere alcuna persona morire neanche quel giorno.
Una persona, giù nel paese, mi racconta sempre che a quel tempo era un bambino e di quelle cose non ne capiva molto. Quel che sapeva è che la scuola era chiusa (quanto aveva festeggiato in quel momento!) e che mio zio era stato bravissimo a non far pesare le lezioni online (che ancora ricorda con un sorriso in faccia e uno sbuffo quando pensa a tutti i compiti in più che ormai non aveva scuse di non fare).
Io ogni tanto mi affaccio da lui, perché voglio troppo sentire di questa storia.
È stato lui a raccontarmi per primo tutto quanto.
Aveva indetto il giorno della liberazione dal COVID – 19: il giorno in cui finalmente tutti potevano dirsi liberi da “il male”.
Erano usciti tutti fuori di casa, i bar avevano ripreso a funzionare, tutti si erano abbracciati.
Mi dice sempre che è stata una festa ancora più sentita di qualsiasi festa si fosse sentita prima di allora. Addirittura meglio di Natale, meglio di Pasqua e ancor di più del compleanno.
È da allora che Gianni, così si chiama, festeggia il giorno della liberazione dal COVID – 19. Io, dal canto mio, sono felice di non aver perso nessuno in quel periodo.
Da Gabriella Taurisano