Dalla mia stanza al 2° piano.
Mi chiamo Valeria, ho 78 anni. Ne avevo 74 quando un ictus e un femore rotto mi hanno obbligata a chiedere alle mie figlie di farmi seguire da una struttura. Hanno un nome orribile questi posti: le chiamano case di riposo, ma qui nessuno riposa mai, né di giorno né di notte. I continui cigolii dei carrelli, i campanelli d’allarme, le grida di alcuni ospiti sono il normale sottofondo a qualunque ora.
Io, dopo una vita trascorsa a curare a casa mio marito Dario, grande invalido del lavoro, sapevo bene cosa avrei fatto passare alle mie figlie se non avessi preso questa decisione. Ambientarsi, però, non è così semplice.
I più bravi – mi dicevano – ci impiegano solo sei mesi, ma io non sono mai stata brava ad adeguarmi al volere degli altri, ho sempre fatto di testa mia. Ho combattuto, resistito e affrontato a testa bassa le traversie della mia vita. Anche adesso non mi rassegno all’appiattimento e, dopo quattro anni, lotto ancora per la mia privacy, la mia dignità e la mia libertà.
Fra poco saranno trascorsi due mesi da quando ci hanno chiuso qui dentro. Non vedo più nessuno. Era già dura prima, ora non ve lo potete neanche immaginare. Anche le mie figlie sono state obbligate a rimanere a casa. Escono solo per le cose urgenti, indossando le mascherine. Qui per carnevale ne avevamo preparate di stupende. Erano in stile veneziano quelle che avevo colorato io con la tecnica a puntini e a trattini tipo china. Amo colorare, qualche volta a casa dipingevo per aiutare le ragazze nei compiti. Mi piaceva molto, ma ora qui uso solo i pennarelli. Ne consumo così tanti che qualche volta devo fermarmi per aspettare che qualcuno me li ricompri. Io però non ho più tempo di aspettare perché ho fretta di riempire i libri di mandala e gli album che poi regalerò alle mie figlie e a mia nipote Giada.
Le maschere degli operatori non mi piacciono. Sanno di infermeria dell’ospedale, sono grandi e mi infastidiscono, perché con quelle non riesco a capire subito chi sta entrando in camera mia e poi chissà che disagio si prova a portarle per tante ore.
Io mi ritengo una persona educata: chiedo per cortesia, ringrazio e saluto sempre. Chiamo tutti per nome, così tengo la mente allenata, e vedo che anche a loro fa piacere sentirsi chiamare per nome. Il nome è importante, racconta chi siamo e parla di noi e qui dentro non bisogna mai dimenticare o far dimenticare di essere persone.
E poi racconto barzellette per fare un po’ sorridere, anche se ultimamente me le sto dimenticando perché non ho nessuno a cui raccontarle. So bene quanto è duro il loro lavoro, l’ho fatto anch’io per dieci lunghi anni, anche se era un’altra cosa: lo facevo con amore per mio marito. Adesso che gli operatori sono nascosti da quelle maschere, non riesco nemmeno a scorgerne il sorriso e soffro anche per loro. Mi dicono che non possono togliersele e che lo fanno per proteggermi. Ogni tanto me ne fanno indossare una ma a me non piace, mi sembra di soffocare. Anche in questa stanza mi manca l’aria. Dove avrò messo il mio ventaglio? Io mi sventolo sempre anche d’inverno e le mie figlie lo sanno e, ormai, lo sanno anche gli operatori. Mi sventolo all’infinito per trovare un po’ di ossigeno, una minuscola sensazione di libertà.
La vita qui dentro sta diventando un inferno. Molte signore ospiti che conoscevo bene non ce l’hanno fatta. Gli operatori lavorano a turni di 12 ore, io li vedo: sono sempre più stanchi, lo si capisce dalla voce che non hanno più neanche voglia di sorridere e questo mi fa stare male. La tensione è alle stelle e anche se mi lasciano rinchiusa nella mia camera posso sentire i loro toni accesi. Sono angosciata e vorrei che aprissero subito questa gabbia.
Oggi sono positiva perché ho sentito che dal 4 maggio ci si potrà reincontrare tra congiunti. Sono positiva: voglio e devo rivedere le mie figlie perché ci siamo fatte una promessa e noi siamo donne di parola. Appena apriranno le porte dobbiamo festeggiare per ogni giorno perso e recuperare tutti gli abbracci e le carezze che non ci siamo potute fare in questo periodo così lungo. Sono io che do forza a tutti, ma per resistere ancora ho bisogno che qualcuno mi dica che apriranno questa gabbia.
Sono Valeria, parrucchiera di Ca’ Baroncello, mi piacciono ancora le scarpe con un po’ di tacco, le collane e i pettini con le punte a coda, ma adesso basta parlare, sono stanca e voglio uscire da qui.
