Quando sei arrivata avevi più o meno dieci anni, occhi bellissimi e uno sguardo che aveva conosciuto ciò che io non avrei potuto capire. E tu di questo ti eri già resa conto. Avevo provato a farti un sorriso, ma tu mi avevi guardata con sospetto e ne avevi tutti i motivi. Chi ero io per sorriderti? Che potere mi arrogavo, sicura all’interno del mio edificio ben arredato, pulito e silenzioso?
Ho conosciuto la tua storia attraverso terzi. Tua madre, dopo aver vinto la paura, si era fidata delle persone che vi avevano prese in carico. E aveva fatto bene.
Eri partita quando avevi otto o nove anni per fuggire da chi, a suo modo, diceva di volerti bene e aveva facoltà di decidere del tuo futuro, visto che eri donna. Era già successo a tua madre e lei non voleva succedesse a te.
Con un mezzo di fortuna, stretta a lei, hai attraversato una parte di continente che forse non avresti visto se il tuo destino non fosse stato minato. Sei approdata laddove non esistono diritti umani per i fuggitivi e lì hai visto tanto, troppo. E nonostante questo riuscivi ancora a sorridere.
Poi un giorno hai fatto la valigia e insieme ad altri sconosciuti hai raggiunto il mare che ti stava riservando un posto in quinta fila. Quando quel relitto, pagato caro, ti ha scaricata sulla spiaggia di un luogo di cui neanche sapevi l’esistenza, hai smesso di parlare. Delle cure che ti riservavano non avevi fiducia. Chiusa nel tuo silenzio scambiato per sordità, hai scrutato tutto ciò che era visibile, ascoltato suoni e intonazioni, hai cercato di capire se l’abbondante gesticolare di quel popolo fosse un pericolo o una risorsa. Sei rimasta lì per un tempo imprecisato. Forse in quella Babele di voci e di ritmi è nata la tua passione per la musica.
Hai vissuto nella mia città per tre anni, abituata ai cambiamenti e alla precarietà del lavoro di tua madre. Hai gestito la tua vita. Hai sfidato il buio invernale (freddo compreso, che ti era sconosciuto) e le intemperie. Con la tua bicicletta di terza mano hai seguito con costanza le lezioni, ovunque potessi imparare. Volevi conoscere e capire. Sapevi che per te il prezzo era più alto e la tua moneta valeva meno di quella corrente. Pedalavi per sentirti adeguata.
Amavi la musica e spesso cantavi assorta nel tuo mondo. Un’estate decisi di prestarti una radio e mi guardasti con un grande sorriso, già pregustavi di poterti chiudere in camera e, come tutti gli adolescenti, di avere la tua privacy insonorizzata dal volume della musica. A settembre, con grande senso di responsabilità, me la riportasti con un velo di tristezza. Levai l’etichetta con il mio nome e te la riconsegnai, sapendo che con te avrebbe avuto miglior vita. Era tua e per sempre.
Da un anno non ho più tue notizie, ti penso spesso. Eri fiorita, i tuoi occhi erano più allegri, avevi stretto relazioni con le ragazze della tua età. Ma ancora una volta hai dovuto fare le valigie. Una legge insensata ha vietato, a chi poteva, di aiutarti a costruire il tuo futuro. Conservo una foto in cui il tuo sorriso esplode. Pensavi di essere al sicuro e che avresti potuto appendere alla parete il poster della tua cantante preferita. Non è andata così, probabilmente quel poster è ancora nella tua valigia azzurra, in attesa, in viaggio con te.
