Il lavoro dopo il Covid: L’ufficio di collocamento

Chiara aveva fatto le cose con la meticolosità di sempre. E, come sempre, ci aveva impiegato più del dovuto. Un modulo che la sua amica Antonia avrebbe compilato in cinque minuti e inviato in uno, passando velocemente alla prossima incombenza. Velocemente invece Chiara non riusciva a fare niente, si sforzava, ma nella sua lista le cose da sbrigare rimanevano parcheggiate per giorni. Di sicuro però, una volta fatte, non c’era bisogno di tornarci sopra. Lo diceva ogni volta il suo supervisore nelle riunioni di verifica del dottorato: “Chiara è una perfezionista, lavora lentamente, ma le bozze che consegna sono sempre di qualità”. E tale era stata la sua storia accademica: sempre in ritardo e sempre d’eccellenza. Chiara aveva finito per pensare che il fallimento fosse un suo personale capolavoro. Doveva essere per forza colpa sua, della sua lentezza e delle sue ‘incertitudini’, come le chiamava Antonia, se a quell’età, con quel curriculum, quell’esperienza e quelle competenze si era trovata improvvisamente disoccupata. C’erano le attenuanti, è vero: il Covid, il ritorno in Italia, l’età (oltre i quaranta), il genere (donna), tutte cose che non aiutano certo la carriera. Ma alla fine di sicuro doveva essere, appunto, colpa sua se tanto studio e lavoro erano andati sprecati. Perciò, era con una punta di stizza che si era concessa tutto il tempo per compilare meticolosamente il modulo dell’INPS, quello per l’indennità di disoccupazione.

E allo scadere dei quindici giorni previsti dalla procedura, la telefonata dall’ufficio regionale del lavoro era arrivata.

“Buongiorno, parlo con la Dottoressa Sartori? Chiamo dall’ente regionale per il lavoro, sono Carla Visentin.”

“Buongiorno, sì, sono io”

“Abbiamo ricevuto la sua pratica. È per il Patto di Servizio, sa, dovremmo compilare la sua scheda anagrafica professionale. Ha tempo?”

“Sì certo, sono disoccupata” aveva provato a scherzare Chiara.

“Eh sì, infatti… purtroppo. Dal primo maggio ci risulta, giusto?”

“Esatto, dal primo maggio, Festa dei lavoratori. Ho sempre avuto il senso dell’umorismo” aveva continuato Chiara.

Ma l’impiegata non aveva colto l’ironia e aveva proseguito: “Aspetti, ora apro la sua scheda e le faccio alcune domande.”

La gentile signora Visentin aveva cominciato a snocciolare dati anagrafici di cui chiedeva conferma a Chiara, la quale nel frattempo aveva salvato le bozze dell’articolo scritto insieme ai colleghi di Durham e si era allungata sulla sedia ergonomica, fissando distrattamente le geometrie che si alternavano sul salvaschermo del suo laptop mentre rispondeva in modo affabile alle domande.

“Professione?”

A Chiara era suonato sarcastico, chiesto a una persona che aveva appena perso l’impiego. Ma comprendeva le impassibili necessità della burocrazia. Quelle che rispondono a un ordine superiore, senza cuore e senza cervello, un’entità postumana che si autonecessita, si autoproduce e si automantiene. Dio insomma. Un dio vuoto e meccanico.

 “Sono ricercatrice” aveva risposto, scrollandosi dai pensieri.

“Ah, che interessante. Docente quindi?”

“Veramente, ricercatrice. Sa, non è proprio la stessa cosa. Naturalmente ho anche insegnato all’università, ma ho fatto soprattutto ricerca.”

“Eh, ma il computer non me lo dà. Devo mettere docente universitario, va bene?”

“Può mettere almeno universitaria, al femminile?”

Non poteva, il sistema non conosceva né ricerca né femminile. Com’è tutto perfettamente coerente, aveva pensato Chiara.

Poi la funzionaria era passata al riquadro “Istruzione”.

“Titolo di studio? Laurea immagino?”

“Veramente, avrei un dottorato.”

“Ah, dottorato. Aspetti, cerco la voce nel computer. Ma è tipo… come posso mettere?”

“Be’, tecnicamente è un Ph.D., conseguito all’estero. La dicitura in Italia è Dottorato di Ricerca. Lo trova?”

“Non me lo dà. C’è master, ma dottorato non me lo dà, mi spiace.”

“Ho anche due master, vuole mettere quelli?”

“Ecco, sì. Che tipo di master?”

“Li ho conseguiti sempre all’estero, credo che l’equivalente italiano sia master universitario di secondo livello, uno in antropologia culturale e l’altro in tecniche della didattica.”

“Dunque vediamo… Niente, non mi dà neanche questi. Le dispiace se mettiamo laurea? Purtroppo, sa, le opzioni sono predefinite e non ho la possibilità di aggiungerle manualmente, mi spiace.”

“Va bene, metta laurea allora. Non abbiamo scelta mi pare. Laurea in Lingue e Civiltà Orientali. Ci sarà questa?”

Sollevata, la signora Visentin aveva risposto che sì, questa c’era, mentre dal bagaglio dei suoi studi orientali Chiara rispolverava l’arte zen dell’imperturbabilità e cominciava a godersi l’esilarante conversazione. Da quando era tornata in Italia, dopo anni di studio e lavoro nell’accademia britannica, ne aveva collezionata una serie di questi dialoghi surreali e tuttavia realissimi. Ma i migliori erano senz’altro gli ultimi, quelli raccolti nella fase post-Covid, o post-occupazione, come l’aveva ribattezzata lei, tra l’umorismo e l’amarezza.

Intanto la diligente signora Visentin era arrivata al punto “Lingue conosciute” del diabolico formulario digitale.

“Ha detto proprio Hindi? Acca, i, enne, di, i? Perché qui non me lo dà. Mi dà hindustani, ma non c’entra, o sì? Metto quello? Tanto non credo che…”

“Non credo neanch’io, stia tranquilla, metta quello”.

Chiara immaginava un rivolo di sudore scendere lungo la tempia della paziente funzionaria ad ogni nuova sezione del modulo. Pensava che avrebbe voluto fare la metalmeccanica, l’estetista, l’operaia orafa, qualsiasi cosa trovasse posto nel formulario, in modo da smettere d’importunare la povera signora Visentin, che non faceva che scusarsi imbarazzata per l’inadeguatezza del modello che doveva compilare. E invece no, lei e le sue bizzarre specializzazioni sembravano piombate da Marte direttamente nei moduli dell’ufficio di collocamento che, a dispetto del nome, non sapeva proprio dove collocarla.

“Formazione. È disponibile alla formazione? Voglio dire – si era corretta, esitante – immagino che sia lei di solito a tenerla, la formazione… ma qui, ecco, s’intende se è disponibile a frequentare corsi, migliorare le sue competenze, sa, per aumentare le possibilità di trovare lavoro. Anche se, mi rendo conto, i nostri corsi non sono adatti al suo livello.”

“Comunque sono disponibile. Lo metta pure, non si preoccupi.”

 “Bene. Dovremmo anche aggiungere le sue aspirazioni. Che tipo di lavoro sta cercando?”

“Vorrei continuare a lavorare nel mio settore, Università e Ricerca.”

“Sì, quindi continuare a fare dottorato di ricerca…” aveva detto l’impiegata, dimostrando di non avere la più pallida idea di che cosa fosse, né a che cosa servisse, un dottorato di ricerca. Come darle torto del resto, aveva pensato Chiara.

“No, quello l’ho concluso già qualche anno fa. Adesso vorrei una posizione stabile, sa, un posto che mi consenta di mettere a frutto le mie competenze scientifiche.”

“Capisco, tipo insegnamento.”

Chiara non voleva infierire. Avrebbe potuto raccontare alla signora Visentin le sottili sfumature di precarietà che si dispiegavano da una dottoranda a un’assegnista di ricerca, da una docente a contratto a una ricercatrice a tempo determinato, da una postdoc con borsa di studio a una senza. L’intera gamma della manovalanza “doc”, come la chiamavano ironicamente lei e le molte amiche e amici nella stessa condizione. Tra loro, le colleghe biologhe avevano avuto un momento di notorietà nel picco dell’epidemia – tra tamponi da analizzare e vaccini da scoprire – per poi tornare velocemente nell’invisibilità di sempre. Ma a che pro spiegare? Pensava fosse incredibile che il precariato della ricerca, tanto diffuso (e mica solo in Italia), non avesse ancora trovato la sua adeguata terminologia nei formulari degli uffici di collocamento. Così, con un sospiro, aveva risposto rassegnata: “Sì, tipo insegnamento.”

Poi era stato il turno della disponibilità a spostarsi – anche fuori Comune? Il piccolo mondo antico che tracimava dal modulo faceva ormai quasi tenerezza a Chiara, lei che per studio e lavoro – l’uno presupposto dell’altro – aveva passato gli ultimi quindici anni della sua vita a spostarsi da un continente all’altro, senza mai aver pensato che stava facendo qualcosa di speciale. Invece, nelle opzioni del formulario elettronico, il mondo si fermava “fuori regione”. Ma almeno questa volta la signora Visentin aveva potuto aggiungere la nota: “Anche all’estero”. Nelle maglie di ferro dell’apparato burocratico era riuscita ad insinuare un po’ di empatia. Quando, alla fine della penosa compilazione della scheda, aveva trovato uno spazio per le annotazioni, era stato con un tono di genuina partecipazione che aveva proposto a Chiara: “Specifichiamo qui il titolo di studio?” E scandendolo a voce alta aveva scritto: Dottoressa di Ricerca, come a restituire alla dott.ssa Sartori un po’ del maltolto, in qualifiche e femminile.  Ancora non aveva ben capito, la premurosa impiegata, perché questa non-più-giovane donna avesse scelto di affannarsi appresso a un titolo così inutile, ma doveva aver pensato che sicuramente su Marte qualche cosa valesse. Così si era congedata con un sincero “Le faccio i miei migliori auguri, dottoressa” e Chiara, con altrettanta sincerità, l’aveva ringraziata per la gentilezza, affatto scontata.

Da Marte, in effetti, qualche settimana dopo un segnale era arrivato. Elizabeth e David, i colleghi del team di ricerca nel quale lei aveva lavorato negli ultimi sei anni, le avevano proposto di collaborare a un nuovo progetto. Il bando di finanziamento era aperto e a loro serviva una brava ricercatrice.

Foto di Carl Heyerdahl dal sito Unsplash

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