Elena era entrata nella stanza a due letti della clinica; aveva cominciato a disporre le sue cose nell’armadio a lei riservato, il cuore stretto al pensiero che aveva dovuto lasciare suo marito fuori dai cancelli: per via del Covid-19, non gli avevano nemmeno permesso di portarle su la borsa. In clinica entravano solo i pazienti, le aveva spiegato l’operatrice che l’aveva poi aiutata con il suo piccolo bagaglio. Elena e suo marito si erano abbracciati per un saluto frettoloso, entrambi con la mascherina. Sentiva di essere un po’ melodrammatica a pensarlo, ma questa situazione le aveva fatto venire in mente altre circostanze in cui per legge, e non a causa del virus, si impediva ai parenti di incontrarsi – i detenuti, per esempio – e aveva provato un moto di pietà.
Era rimasta quindi molto sorpresa quando, di lì a poco, un’infermiera aveva fatto entrare nella stanza due donne, una giovane e una più anziana, sicuramente madre e figlia, entrambe con il capo coperto dal velo. Aveva colto, da un breve scambio di frasi tra l’infermiera e la ragazza, che anche quest’ultima aveva dovuto sottoporsi al tampone per poter accompagnare la madre, la quale non parlava italiano, ai colloqui preliminari con i medici. La figlia invece lo parlava correntemente, con un lieve accento veneto. L’infermiera le aveva chiesto di restare fino a dopo l’operazione, ma lei non poteva: non avendo previsto di dover rimanere, non aveva predisposto a chi affidare i bambini e, una volta uscita dalla clinica, non avrebbe più potuto farvi rientro. Elena le aveva domandato se la madre parlasse francese, ma la ragazza le aveva detto di no, sua madre non era mai stata a scuola.
Naima ed Elena si erano conosciute così, comunicando a gesti e con le poche parole di italiano che Naima conosceva, ma vi era stata subito intesa, grazie ad una sensibilità femminile che entrambe possedevano. Elena era riuscita a sapere di dove veniva, dove abitava, cosa faceva, quanti figli e figlie aveva. Con un moto di orgoglio, Naima le aveva spiegato che la figlia di bambini ne aveva cinque: cinque, faceva allargando la bella mano affusolata. Lei si era sempre occupata di loro, era parso di capire ad Elena: “…cucinare, lavare, pulire, bambini…”. E Naima sorrideva, chiaramente appagata nel suo ruolo di madre e di nonna.
E poi, naturalmente, era arrivata la domanda su quanti figli avesse lei, Elena. E quando aveva detto che non ne aveva, Elena aveva visto la tipica reazione che aveva sempre incontrato a questo riguardo nei suoi rapporti con le donne africane. Nelle lezioni di Italiano che teneva per donne migranti per conto della sua associazione, le prime frasi erano: “Mi chiamo… sono/non sono sposata… ho/non ho figli” e sempre, di fronte al modello che lei forniva (mi chiamo Elena, sono sposata, non ho figli), incredulità, sincero rammarico e compassione si dipingevano sui volti partecipi delle donne. Qualche volta a lei era perfino venuto da ridere, tanto prevedibile e unanime era la reazione.
Anche il bel viso di Naima si era allungato, gli occhi spalancati, un sussurro detto proprio con il cuore, che indicava solidarietà contro un destino così avverso.
I tempi vuoti delle giornate in clinica lasciavano spazio ai pensieri. Ed Elena rifletteva seriamente su questa faccenda: certo era di sicuro questione di culture e di cultura, ma potevano esistere anche variabili personali. Lei non aveva mai sentito il desiderio spasmodico di avere figli. Da ragazza, parlando con le compagne di università, aveva spesso udito qualcuna affermare con decisione di volere figli in futuro, un figlio a tutti i costi. Lei no, non si era mai vista nel ruolo di mamma: e sì che di bambini piccoli ce n’erano stati molti nella sua grande famiglia, prima i cuginetti, poi i figli e le figlie delle sorelle, bambini a cui aveva cambiato i pannolini, lavato i culetti, dato il biberon, bambine e bambini cullati quando piangevano. Si era tolta la voglia di giocare a fare la mamma. E voleva loro bene come se fossero stati suoi. Ma in fondo cosa ne sapeva dei sentimenti di una madre vera, che in un figlio o una figlia vedeva un prolungamento di sé, carne della propria carne, vissuto come un unico organismo per nove mesi. Come poteva fare paragoni?
Il fatto era che non si sentiva monca per non aver vissuto questa esperienza. A differenza di Naima, lei di opportunità ne aveva avute molte in termini di agiatezza, formazione culturale, esperienze di viaggio. Si era sposata tardi e, benché non avesse escluso a priori di avere figli, aveva lasciato fare al destino. Aveva dedicato la vita al suo lavoro di insegnante, vocazione che aveva avuto fin da piccola e che era stata così fortunata da poter seguire. Le erano venuti in mente tanti suoi alunni, ne aveva avuti a centinaia nella sua carriera: li incontrava poco più che bambini e li lasciava giovani donne e uomini. Molti li aveva rivisti da adulti e le avevano confessato quanto importante fosse stato per loro un certo momento, una certa lezione, come avessero avuto spiragli di quello che sarebbe stato il loro futuro grazie a cose che lei aveva detto o fatto. Ecco, anche lei in fondo aveva creato qualcosa di duraturo. Forse, dietro al suo ruolo di insegnante e di adulta responsabile nei confronti degli adolescenti, c’era, latente ma non meno fecondo, un sentimento di dedizione e di cura che molto aveva di materno.
Guardava Naima addormentata nel letto vicino: la camicia da notte metteva in risalto le sue forme, generalmente nascoste dagli ampi abiti prescritti dalla sua fede religiosa. Le curve generose del suo corpo addormentato sembravano la rappresentazione vivente della Grande Madre. Aveva pensato a quella donna, alla sua vita non facile, ma piena e appagante. Si sentiva felice della sua contentezza, però non provava alcun sentimento di invidia: anche lei, Elena, in fondo, aveva avuto molte esperienze di maternità spirituali che avevano reso la sua esistenza completa ed appagante. La vita ha molti modi di chiamare a lasciare la propria impronta e lei, come Naima, aveva risposto con generosità ad una vocazione e ne era stata ampiamente ripagata.
