Mia figlia Giulia, di otto anni, e mio figlio Filippo, che di anni ne ha cinque, hanno aspettato con ansia la fine della prima clausura: c’era da andare al canile, per l’adozione.
Io sono una gattofila, non so se per comodità o per compatibilità di carattere. Un cane rappresenta un’assunzione di responsabilità che sento gravosa. Però ho ceduto, e con i bambini le promesse si mantengono, sempre.
Sabato pomeriggio, quindi, siamo al canile. Io aspetto lontano dalle gabbie e lascio i bimbi con il responsabile che li accompagna nella scelta: il cane sarà loro e non voglio influenzarli. Ho posto un’unica condizione: non deve essere di taglia troppo grande.
Passano circa venti minuti. Vedo da lontano i tre che stanno tornando e tengono un cane al guinzaglio. La scena è questa: il piccolo Filippo tutto felice e baldanzoso, il cane superscodinzolante e felice pure lui, il responsabile del canile che mi guarda un po’ perplesso (non prendertela con me, sembra dire), e Giulia che più si avvicina e più rallenta, temendo la mia reazione.
Via via che metto a fuoco, mi sento le gambe molli: devo sedermi e ritrovare il respiro. Non ho mai visto un cane più malmesso di questo, mezzo spelacchiato, un orecchio alto e uno basso, un occhio vitreo tipo cataratta. Mi pare anche un po’ anzianotto.
Non riesco a dire niente.
Giulia allora: “Mamma, abbiamo pensato…. “.
In realtà ha pensato solo lei, al piccolo Filippo bastava un cane qualsiasi.
“Mamma, lo so che è brutto, ma abbiamo pensato che se non lo prendevamo noi non l’avrebbe preso nessuno.”
Ci siamo avviati in quattro, due che ridevano elettrizzati, uno che guaiva felice e io che piangevo calde lacrime.
Be’, che devo dire, la vita è dura ma ci sono giorni in cui penso che ce la possiamo fare.
